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La Polenta dei Camuni
Tutto il paese, la sera, un dolcissimo odore di polenta appena rovesciata sul tagliere; ed era finalmente il richiamo per cui noi lasciavamo di giocare a «muduk» e a bandiera sulla piazza. E la mamma non faceva più fatica a chiamarci perché una voce, quella dell’appetito, ci portava a casa tutti come rondini.
Polenta mia, guai se qualcuno parlerà male di te. Io non ho mai conosciuto il pane: a casa il pane lo mangiava soltanto chi si ammalava; ma era un caso raro, e poi tanto poco da fare appena una “panade”.
Ma la polenta! Cosa nascondevi dentro la tua sostanza per farci crescere tutti così grandi, in fretta? Tutti noi fratelli, alti come gambe di granoturco, forti, instancabili più degli altri (mai una malattia che ci abbia minati ); e, ancora ragazzi, con il piccone, d’inverno, a estirpare i ceppi perché il focolare fosse
sempre caldo.
Mattina, latte e polenta; mezzogiorno, minestra e polenta; la sera, radicchio, «argelùt» e ancora polenta . E, anzi, nei giorni duri, di magra, io ricordo mio padre che tagliava due fette dalla piccola montagna d’oro e me ne metteva una per mano e mi diceva: “Ecco, una la chiamerai polenta e l’altra formaggio”. E io che ci credevo; e addentavo ora da una mano ora dall’altra, fingendo di mangiare polenta e formaggio. E gli amici, quelli delle poche famiglie ricche del paese, mi prendevano in giro, m’insultavano. Io piangevo, eppure non potevo pensar male della polenta, non potevo dir male di mio padre.